venerdì 31 ottobre 2008

La strada per Muhura


L’aspettativa è alta. Dovrò viverci un anno. Ci sono voci contrastanti. Stefano dice: “Nessuno può sapere a priori se ti piace Muhura.” Qualcuno toglie il “a priori”, cambia un po’ la frase, e dice che a nessuno può piacere, e se ti piace hai qualche problema. Omar evidentemente ne ha. Ne è entusiasta, così come Enrico che ha vissuto lì, a seconda delle fonti per 10 anni, 20 anni, è nato lì, è nero e poi l’hanno scolorito chirurgicamente come Michael Jackson, Enrico ha fondato Muhura nel 1856 assieme ad una spedizione prussiana alla ricerca dei diamanti di re Salomone. Potrei quindi chiedere a lui qualche informazione in più, ma haimè, è già scappato con i diamanti e non lo si trova più.

Dopo una settimana a girovagare tra Byumba e Kigali per una serie di non meglio identificate procedure politico-socio-amministrative, posso finalmente scendere in capitale, prendere i 50 computer, con i 50 monitor e un sacco di altre cose, tutte in numero di 50, giocare a tetris nel furgone con gli scatoloni (tutti perfettamente diversi l’uno dall’altro) assieme al laconico Elias (che non parla mai, ma quando parla mi dice che così non si fa) e partire alla volta del misterioso villaggio nella provincia di Gatsibo (che per quanto mi riguarda è ancora più misteriosa della stessa Muhura).

Anche riguardo al tempo di percorrenza non c’è una sola verità, dalle 3 ore ai 4 giorni. Ma sono tutti concordi nel dire che con il furgone carico ci metteremo il doppio. Interrogo vari siti internet che si rifiutano di darmi la più vaga risposta e dal sito della Michelin viene fuori Bibendum che mi fa il gesto dell’ombrello. Per cui sconfortato chiedo all’autista Elias una stima del percorso, e prima mi risponde con un secco “NO!”, e poi mi fa notare che il concetto di tempo serve solo nelle aule di fisica 2. Perciò crollo in un sonno profondo che viene interrotto solo dai controlli di polizia. Li accolgo con un gran sorriso e malgrado la bava che mi cola dal lato della bocca l’autorevolezza della mia pelle bianca evita il controllo dei numeri di serie dei computer, che avrebbe comportato lo smontaggio del carico, e un’altra interminabile partita a tetris.

L’ultimo risveglio non prevede la possibilità di riaddormentarsi. Siamo arrivati sulla pista. E la pista percorsa prevede scosse costanti del 8° grado della scala Mercalli (che sottolineo: è una scala che tiene conto dei danni e non della magnitudo). Ma subito tutto cambia. Non ci sono più i fumi a forma di teschio che escono dai tubi di scappamento e i clacson a 230 decibel, che neanche Micheal J. Fox all’inizio di ritorno al futuro avrebbe osato. Certo, i movimenti tellurici del furgone non conciliano il sonno, ma sarebbe comunque difficile anche solo appisolarsi vista la quantità di informazioni che offre la strada. Per Elias sono più bersagli mobili che informazioni, ma riesce comunque a schivarli. Io invece li colpisco, in pieno. Perché non c’è bambino che non riconosca in me uno straniero da salutare con un gesto a due mani o un semplice dito che mi indica, sempre all’urlo di “U Muzungo!”, pronunciato con una leggera cadenza genovese, che insinua qualche dubbio vista anche la maglia della Sampdoria di taglia 56 con il nome di Bogossian stampato sulle spalle che ha probabilmente anche la funzione di pigiama e vestito da sera. La maglia, non Bogossian.

Si insinua l’idea di creare scompiglio arrivando avvolti da un nuvolone di polvere, traballando, con la prima che ruggisce (perché mettere la seconda è impossibile). Dal fondo della strada si vedono donne, ragazzi, vecchi e uomini che escono dai bananeti sulla terra rossa della pista, con il loro fardello sulla testa, che siano foglie, taniche, pietre o cemento e, con la disinvoltura che avrebbe un neonato sott’acqua, si girano, e trovano il tempo per un sorriso e un gesto con la mano senza che questo li sbilanci o li faccia diventare il nuovo bersaglio di Eilas. Le vacche dalle lunghe corna si vedono da centinaia di metri di distanza, e già si capisce quanto siano ridicole, e quanto il toro sia infedele, passano le caprette, poi si vedono i leoni e loro ammaestratori, i mangiatori di fuoco, i trapezisti e la donna cannone assieme a De Gregori che vengono sparati nel cielo dalla nana barbuta e la sua catapulta umana. Licia Colò presenta lo spettacolo come buona tradizione natalizia e i bambini sono in visibilio. Poi c’è anche qualche indifferente e qualche piccolo bastardo che lancia un sasso sulle portiere, ma nello specchietto si può vedere il papà, o chi per lui, dargli due sberle, roba che, se l’avessimo tirato sotto con la macchina gli avremmo fatto meno male.

Non vorrei sembrare irrispettoso nel descrivere il tragitto come un circo ambulante, ma solo sottolineare quanto sia giocosa e festante l’atmosfera ai bordi della pista, anche se il palo della cuccagna non c’è, e, anche se ci fosse, sarebbe senz’altro vuoto, con, tuttalpiù, un casco di banane al posto di un gran prosciutto, comprato da sicuramente da Omar, ma questa è un’altra storia…

Non so quanto effettivamente questa strada (strada?) sia frequentata da automobili, e ancora di più da bianchi, ma mi piace pensare che quando l’attraverso una o due volte la settimana per andare a ricaricare la batteria del cellulare a Kigali, per le persone sulla pista per Muhura, io non rappresenti lo stereotipo dell’uomo bianco che arriva in Africa, per costruire o colonizzare, per portare soldi o caramelle, ma che io venga solo riconosciuto come uno straniero che vale la pena di accogliere come meglio si può fare se lo si vede passare in macchina. Con un sorriso e un gesto della mano.

mercoledì 22 ottobre 2008

Aprite la porta s'il vous plait


Di solito il problema è cominciare. e di solito un buon modo per farlo è quello di partire dall'inizio, anche se, come insegna Tarantino, spesso la maniera per rendere interessante una storia è proprio quello di capovolgerla. Ma, non essendo un maestro della cinematografia, sarebbe difficile cominciare dal racconto di come oggi mi sia ritrovato a ballare il liscio con una jeep in mezzo ad un torrente che fino a qualche minuto prima era una meravigliosa strada di terra rossa che tagliava quasi verticalmente il verde incessante delle colline rwandesi, e che, dopo essersi trasformata nel primo percorso del campionato di rafting con jeep dell'africa centro-orientale, ha permesso a Stefano di classificarsi per le finali di ballo nella categoria "uomo-auto". A vederci scendere dev'essere stato un po' come vedere gli ippopotami rosa di fantasia, solo con gli adesivi della cooperazione italiana sulle portiere al posto del tutù.
Comincerò invece col fatto che sono arrivato. Che anche se sulla mappa dell'Africa non si vede perchè affogato da giganti quali il Congo e la Tanzania, il Rwanda esiste. E' quel pallino che c'è tra Uganda e Burundi (che per la verità è un'altro pallino), dove il nome del paese è scritto sul territorio della Tanzania e poi indicato con una freccia. In realtà questo posto non esiste e non è mai esistito, salvo per qualche mese a partire dall'aprile del 94 quando dei ragazzacci scalmanati si sono arrabbiati tra loro e ne hanno tirato fuori una guerra. Ora invece ho scoperto, con mia grande sorpresa che quel paese esiste ancora, che effettivamente non è tanto grande, che i ragazzacci sembrano aver messo la testa a posto, e che ha un carattere, una dignità e una bellezza subito evidenti anche a chi, come me, lo ha visto per cinque giorni e sempre da un finestrino di una macchina.
vale la pena di scendere...