martedì 23 dicembre 2008

Buon Natale


Parto dalla foto. Un giorno, mentre sono a Byumba, e io, Stefano e Giuseppe siamo in camera, ognuno urlando contro il microfono, e maledicendo la tecnologia che offre grandi prospettive e che, quantomeno in Africa, lascia sempre grande delusione. E così ci ritroviamo sconsolati in sala, senza essere riusciti a parlare con la ragazza, ma tutti senza voce e con dei “Pronto!! Pronto!! Mi senti?!” che ancora riecheggiano nelle orecchie. Esausti si comincia a parlare del rapporto a distanza, che tutti vedranno temporaneamente risolto durante le vacanze di Natale. E a questo proposito Giuseppe materializza un’idea che mi frullava in mente da qualche giorno. La cartolina di natale MLFM.
Il dispiegamento di tutte le forze in campo dell’ONG lodigiana, i mezzi , lo sporco sui vestiti e la stanchezza sui volti, a sostituire il pungitopo, e le bacche rosse. Questo per giustificare Giuseppe che forse nel momento in cui l’ha pensata, si immaginava un book fotografico, con luce di taglio e il fumo bluastro della sigaretta che basterebbe solo quello a creare del fascino. E invece, come spesso accade, tra lealtà e fantasia non solo c’è di mezzo “e”, ma anche una giornata di lavoro. Ne viene fuori (partendo da sinistra) che:
io: indosso gli unici vestiti che ancora possiedo perché arrivato il giorno prima da Nairobi dove il mio bagaglio è rimasto per altri tre giorni.
Giuseppe: una giornata in cantiere; ha cercato di sottrarsi alla foto perché non all’altezza
Stefano: sorride, ma non bisogna farsi trarre in inganno. Ha lo stesso sorriso stampato da tre giorni. Una paralisi facciale dovuta al freddo di Byumba
Omar: disperato perché allontanato da Muhura coattamente causa riunione e in attesa di altre 2 ore di pista per il ritorno
Edo: niente da dire, impeccabile come sempre. Andiamo in cantiere mezza giornata: lui alla fine è lindo che potrebbe fare una pubblicità della pampers, io ho messo il piede in una pozzanghera appena sceso dalla jeep.
Greta: idem come Omar, solo in abiti più consoni ad una riunione ufficiale. Stile Edo camuffa meglio di Omar.

Senza troppi artifici, in una rara occasione in cui l’intero staff Muzungo di MLFM Rwanda si è riunito, abbiamo colto l’occasione per scattare una cartolina di Natale. Non c’è la neve e la temperatura si aggira sui 28 gradi. Non c’è il torrone, sempre banane e patate, e qualche volta i bignè congolesi al posto del panettone. La neve sta nella mia palla con dentro il duomo versione paccottiglia top, i regali sono un concetto distante anni luce, le luci non ci sono perchè non c'è la corrente e Babbo Natale, che a Kigali è nero e sta sempre sui cartelloni della coca cola, mi sa tanto che qui non arriva perchè non vedo il camino... Tante angurie di Natale a tutti.

venerdì 19 dicembre 2008

Raccolta differenziata


Finalmente le cose prendono forma. Quantomeno una forma simile all’idea di partenza. Una forma c’era anche all’inizio, ma era sbagliata. Bisognava tirare fuori un’aula informatica. Per due mesi è stato un cantiere ed in due giorni passa la fata turchina e PUFF! Tutto compare. Nello specifico la fata turchina è composta da un paio di maschioni neri e puzzolenti, e da me altrettanto nero (a causa delle avventure nel sotto tetto), e conseguentemente altrettanto puzzolente, tutti comunque in tutù e bacchetta magica, ma, loro, con delle braccia tipo camalli del porto di Genova, che spostano tavoli di legno massiccio come fossero stuzzicadenti. Per quasi due mesi il lavoro è stato nascosto da uno strato di polvere e matasse di cavi multicolore che sono state -assieme allo switch e al router satellitare, con le loro lucine di connessione- le uniche cose che hanno richiamato l’atmosfera natalizia, tipo addobbi in Venezuela, a quanto scrive Dennis. Poi arrivano i tavoli, le sedie, si installano i computer, e tutto diventa improvvisamente credibile. L’aula ha un senso. È subito riconoscibile. È un’aula informatica. È chiaro.
E quando una cosa di tale portata viene realizzata da una persona soltanto, un sistema di comunicazione (credo telepatico), porta ad un afflusso istantaneo di persone che bramano di vedere, toccare, usare. “Signori per favore, l’aula non è ancora disponibile, quando lo sarà ve ne sarà data comunicazione, grazie per la comprensione ”. Ma a loro dei computer non interessa nulla. Loro vogliono i cartoni. I cartoni dell’HP. Fossero stati IBM andava bene lo stesso, ma quelli dell’HP sono proprio belli, forti resistenti e multi uso. Al momento stesso che il muzungo dice: “prendete pure”, per 2 secondi capiscono l’italiano, e parte una lotta di cuscini, con il polistirolo al posto delle piume, della cui vittoria i più rapidi possono fregiarsi con una quantità imbarazzante di scatoloni impilati in testa, e un sorriso trionfale stampato sulla faccia.
Il giorno dopo altri PC, e altre scatole, e assieme a tutto questo pezzi di cavi, di canaline, di prese rotte e calcinacci di muro, sacchi di plastica, polistirolo, e manuali di istruzioni. Li scopo fuori dall’aula. Di nuovo, dopo 5 minuti è lindo che sembra la stazione di Zurigo. Chi ha buttato via tutto? E soprattutto dove, visto che non esistono cestini? A parte la polvere, che ce n’è in abbondanza per tutti e quindi non ha mercato, tutto il resto serve. Un sacchetto di plastica per un buco sul tetto, un pezzo di canalina è un’idea di grondaia, 10 cm di filo elettrico servono per tenere ferma una trave che si muove in casa, e le prese elettriche rotte non so proprio per cosa le usino. Solo le cose molto piccole vengono scartate perché il valore dell’oggetto viene calcolato in base alla sua dimensione, perciò lo scatolone vale veramente un sacco.
Il concetto di raccolta differenziata è superato. È superata l’idea che qualcosa non serva più perché non può più essere utilizzata per il motivo per la quale è stata costruita (scusate l’intrico di relative). Se c’è qualcosa a qualcosa servirà, e chiunque sia a dargliela, addirittura gratis, gliene saranno riconoscenti. E questo lo manifestano a modo loro (mi piace pensarla così), quando passo davanti a scuola e sento da lontano che mi chiamano per salutarmi, mi giro, ma non urlano “muzungo”, gridano “carton!”.

mercoledì 10 dicembre 2008

Considerazioni a caso sul Kenya


È vero ho scritto per un po’ e poi non ho scritto più. Un po’ perché ero preso dal lavoro e un po’ perché sono stato così poco preso dal lavoro che ero in Kenya. Lì sono stato così bene che la Kenya Airways ha deciso che il mio bagaglio sarebbe stato sicuramente più a suo agio a Nairobi che a Kigali. Però poi ci siamo spiegati, e dicono che proveranno a convincerlo a tornare. In ogni modo mi sembra doveroso buttare giù un paio di righe a riguardo. Non riguardo al bagaglio, riguardo al Kenya. Niente di preciso, bensì una serie di immagini costanti che mi hanno accompagnato in 12 giorni di permanenza all'estero. Dico all'estero perché mi sono accorto di considerare ormai il Rwanda alla stregua di casa.

Ma fuori dall'uscio, come sempre accade quando si esce c'e' un mondo nuovo. Un mondo in cui si vede fino all'orizzonte, senza colline, senza regole stradali, e con un oceano che cambia tutto quando la sua terra lo tocca. Un mondo pericoloso, di drogati, di uomini da marciapiede che fanno affari loschi secondo la Lonely Planet, che insinua un certo terrore nel lettore ignaro. Un mondo di persone genuine, vogliose di compagnia, secondo quello che ho visto io. Certo poi magari ti chiedono se vuoi una guida per visitare la luna -dove, peraltro sta sua nonna- ti propongono un giro in barca o un qualunque tipo di servizio, anche se non avevi mai pensato che a qualcuno potesse servire scambiare il prorpio dread con quello di un’altro, che in ogni caso ha suscitato in me una certa curiosità su come questo sarebbe avvenuto. Ma comunque una volta precisata la mancanza di soldi, più da parte nostra che da parte loro, sono sempre felici di indirizzarti, spiegarti, consigliarti un cugino che ha un’attività di paccottiglia artigianale e fare due chiacchiere. Quello che ho visto è un mondo un po' intangibile, senza immagini forti, senza scenari da re leone, senza il Kilimangiaro, le sue falde e Licia Colò, senza incoronazione della regina Elisabetta in mezzo a elefanti e rinoceronti impagliati, anche se ammetto che questo ha un sapore tutto suo. Quello che ho visto è stata una sensazione, se mi passate la sinestesia. È stata un immersione in una cultura forte ed aperta, estremamente eterogenea che chi la conosce meglio la definisce tipicamente Swaili. E credo che sia proprio questa diversità di culture che pone le basi per una tolleranza a tuttotondo. Quando in un bar ci si ritrova a parlare da una parte con un masai, che non capisce come in Italia non ci siano le etnie, e perché i leoni li può uccidere solo di qua, mentre di là no, perché gli hanno spiegato che si chiama Tanzania, dall’altra un rastone, che dice Bob Marley ogni tre parole, mentre davanti passano donne mezze nude o con il burka integrale e un uomo, tipicamente mediorientale, con tanto di fez e tappeto volante aleggia a mezza’aria con in mano una lampada magica, è evidente che: o la tolleranza è un concetto assunto per principio, o il Kenya non dovrebbe esistere dal momento stesso della sua indipendenza. A quanto il Kenya esiste eccome, e quindi non è vero che il diverso è necessariamente il nemico, o forse più semplicemente hanno spostato più in là il concetto di diverso. Per cui il muzungo che è inevitabilmente riconoscibile non ha altro da fare che accettare pacificamente tre persone che si danno il cambio al tavolo del tuo tentativo di cenetta intima, fare due chiacchiere, e sentirsi semplicemente a casa. In fondo la tonalità dell’abbronzatura non è così determinante. Una sensazione simile l’avevo provata solo un altro posto. In Senegal tra woloof, peulhs, mandingo, libanesi, diolas, cinesi, toucouleurs e una smodata quantità di etnie minori il toubab italiano è solo uno dei tanti. E se gli altri sono a casa allora lo sono anch’io; anche se questo è vero solo in parte, perché, tanto i francesi in Senegal, quanto gli inglesi in Kenya non possono fare a meno di rinunciare alla loro eredità coloniale, e, se sulla spiaggia di Yoff, a Dakar, i primi cercano di giocare a calcio sostenendo di essere i più forti, in maniera altrettanto improbabile, sulla spiaggia di Tiwi Beach a Mombasa, Mrs. Sheela, seduta sulla sua poltroncina vittoriana a fianco del tavolino stile impero non può rinunciare al suo tè delle 5. God save the queen…