sabato 21 marzo 2009

Con Indiana


Da qualche tempo ho cominciato a seguire i progetti idrici di MLFM. In realtà seguo Giuseppe come un pesce che punta l’esca, anche se lui continua a pescare in acque basse, e io a navigare in acque profonde, essendo piuttosto ignorante in materia, anche se tutto si semplifica schematizzando la rete idrica come un circuito elettronico, trovando difficoltà a fare la retroazione dell’acquedotto, il che inficia completamente gli ultimi tre anni di università (scusate questa era per gli amici ingegneri). In ogni caso siamo in missione a Kibungo per capire dove piazzare la pompa. Arriviamo con un sole splendente e vediamo lo scavo del filtro dall’alto, soffocato ai bordi da un bananeto, il che colloca automaticamente la pompa all’interno dello stesso. Cominciamo a scendere per un paesaggio ormai noto. Vicino all’Umutara, come a Muhura, la temperatura è più mite, colline di banane, valli un po’ paludose in basso, e mai una strada che arriva dove vuoi tu. La macchina è rimasta a monte, fatto che diventerà rilevante al momento di risalire… Arriviamo allo scavo del filtro, considerazioni tecniche e poi dentro il bananeto con Petero che abbraccia un machete per farsi largo tra la natura violenta. Le nuvole compaiono dal nulla, anche perché in Rwanda l’orizzonte è a circa 1 Km, e quello che vedi è sempre una collina più alta. Andiamo avanti, Petero sega una banana e Edo piazza la livella laser sul tronco della pianta. Una misura e poi il diluvio. Giuseppe sfodera esperto un poncho stile scout, Edo ancora più esperto si ripara sotto un foglione di banano, io uso entrambe le tecniche, ma gli unici a non bagnarsi sono i rwandesi che rimangono immobili sotto le piante. L’immagine è nota e la pesco, non dall’esperienza, ma dal cinema, dai libri, dalle foto e da superquark e l’intervista a Mainardi. L’africa tropicale nel pieno del suo stereotipo. Un’acqua torrenziale scende dal cielo, evento lievemente mitigato da una vegetazione fittissima. Il colore dominante è assolutamente il verde che spazia ovunque, di lato, sotto i piedi e anche di fronte dove salgono colline coltivate fino al cielo, diversamente nero. È impossibile fare qualunque tipo di attività. Unica eccezione Giuseppe, che si ritira nel suo poncho come una tartaruga impaurita e scatta una foto col cellulare. Petero ride e mi profonde consigli su come non coprirmi di fango, tecniche che per i bazungo (plurale di muzungo) non funzionano. A tratti riesce a piovere ancora di più, accentando quell’immagine nota di uno scenario fino a poco tempo fa sconosciuto fatto colori, visi, ma soprattutto, sensazioni. Ripesco idee che vengono da Kipling, Cussler, Crichton, l’Africa coloniale, Lara Croft, L’india, Indiana Jones e l’eterno Allan Quatermain. E proprio come Indiana Jones, con cappello in stile, appena comincia a spiovere, Giuseppe sfodera il metro come fosse l’impareggiabile frusta, accende la livella e, tutti ai loro posti, ricominciamo da dove avevamo lasciato. Altre considerazioni tecniche e ritorniamo allo scavo del filtro. Visto così dal basso, piatto e mezzo allagato sul fondo, con le pareti verticali scavate nella terra rossa che salgono per qualche metro, e la vegetazione che guarda tutto dall’alto, sembra veramente un incrocio tra le miniere di re Salomone e il tempio maledetto. Aspettiamo solo lo stregone che cerca di strapparci il cuore, metro alla mano e sguardo appannato.

martedì 3 marzo 2009

Familiarità


Negli ultimi tempi ho trovato un po’ tempo per vedere Muhura. I ritmi violenti necessari per concludere le sale informatiche sono cessati ed il lavoro di gestione conseguente lascia un po’ più di tempo libero. Tempo libero per le peregrinazioni, per scoprire almeno una delle mille colline del Rwanda, visto che fino ad ora le avevo solo fotografate, e da lontano per giunta. Muhura è una collina, anche se vista da lontano, dalla diga di Enrico, assume più l’immagine di una striscia con la parrocchia a fare da capofila, come la cresta di un grande drago verde (no, non vedo i draghi, era solo un paragone –per inciso il drago verde è la collina-). Quindi l’esplorazione, che era rimasta confinata alla sola strada carrabile che attraversa Muhura, è cominciata proprio da qui.
Scendendo per un sentiero qualsiasi l’immagine assume delle tinte completamente diverse. La densità abitativa cala improvvisamente e si aprono i campi e le valli, prima nascosti dalla fila di case e banane sui bordi della strada. I sentieri percorrono scene rurali consuete come un piccolo pascolo di mucche, vegetazioni esotiche, e scene così tipicamente rurali e africane, che uno sceneggiatore di Gardaland, non avrebbe difficoltà a riprodurre per la nuova avventura 2009: “The Ecstasy of Gold”, vai anche tu alla ricerca del tesoro di Re Salomone attraverso le rapide più lunghe d’Europa, vivendo una vera esperienza africana. Sentieri che cambiano ogni trecento metri, perché qui le parcelle che ogni contadino coltiva non sono più grandi di due ettari, e su ognuna ci sono almeno tre colture. Sentieri che mostrano valli degne di un quadro di Mordillo, tanto sono arcuate le colline che le circondano, e tanti sono i colori degli innumerevoli campi che si possono osservare in un sol colpo d’occhio. Sentieri che possono non aver luogo e tempo. Solo la presenza costante di quelle case, può suggerire l’idea del continente nero. La testa non pensa, non elabora pensieri strutturati. L’unica cosa in grado di fare è guardare e non pensare. La differenza sta nel fatto che di solito mi dimentico anche di guardare… Poi d’improvviso, entra nella testa un immagine. Arriva a schiaffeggiarti violentemente. È il pensiero che vola all’aula informatica e all’internet cafè che sta per aprire. La sola idea dell’esistenza di un posto simile sembra assurda se paragonata all’immagine che si sta ancora osservando, e così adeguata se si pensa al luogo dove effettivamente si trova, benchè siano a distanza di 200m l’uno dall’altro. Perché tornando sulla strada ci si rende conto di come quella effettivamente sia il fulcro della vita sociale ed economica di Muhura.
La prima immagine (parlo proprio della prima, quella descritta nel post “strada per muhura” quella del “tutto nuovo tutto bello”) che si riceve da un posto così lontano dalle ottiche europee è viziata dalla diversità. La diversità è tutta uguale. Sempre. I cinesi sono tutti uguali, gli africani sono tutti neri, e le catapecchie sono catapecchie. Punto. La strada non è asfaltata, i colori sono diversi, la gente anche. È proprio osservando tutto questo che si lascia da parte una valutazione intrinseca delle cose a vantaggio di una grande confusione di colori, odori e immagini. Ma poco a poco le case, le facce, i posti e gli atteggiamenti diventano familiari. Si riconosce e si vede sempre di più, le cose assumono sfaccettature diverse e si comincia a distinguere sempre più a fondo, non vedendo più la diversità, ma concentrandosi sulle somiglianze verso ciò che si conosce. E in quel momento vedi lo struscio delle 5 di pomeriggio, vedi che la gente è vestita meglio e che passeggiano sulla via principale - che assume i toni di un corso - la domenica i muzungo sono i peggio vestiti, e dopo la messa si chiacchiera sul sagrato. Quando non sai che fare vai al mercato, tanto qualcuno lo incontri, e dopo averlo salutato passeggi verso casa con qualche pettegolezzo in più.
La diversità non c’è più. È tutto normale, come dev’essere.