sabato 30 maggio 2009

Questione di Sguardi


Sono quasi due mesi che non aggiungo nulla a quello già scritto in precedenza. Un po’ perché ho lavorato, un po’ perché non avevo voglia e un po’ perché ero in Italia.
Tornato nel bel paese mi sono dato al giapponesismo, quell’attitudine a girare come una trottola scattando foto a monumenti disparati, portando a collocare la Tour Eiffel a Venezia, il Cenacolo a Londra, il Big Bang a Barcellona e la fontana di Trevi a Roma (ma è solo un caso). Perciò, caffè e briosche alla fontana, foto di rito, volo a Parigi per vedere le piramidi, con mia grande delusione, e poi, a cercare il Colosseo a Firenze, senza peraltro trovarlo. Dopo 6 mesi d’Africa, di Rwanda, di Muhura, mi aspettavo uno shock da occidente, un passaggio in un nuovo mondo, un impatto da Australopiteco scongelato modello Similaun. Ed in effetti sono stato colpito, con un po’ di stupore, dallo sviluppo verticale delle città, dalla velocità folle delle auto, dai frigoriferi ricolmi di cose, che, anche se ora sto a Byumba, con corrente e frigorifero sempre acceso, dei tre scaffali se ne vede pieno solo mezzo: tre pezzi di grana, un po’ di coppa e due salami. La cucina ruandese non sa cosa farsene del frigorifero. Anche il burro, quello keniota, il Blue Band, oltre a non essere burro (e nemmeno un composto organico), è studiato per non essere conservato in frigo. Il freddo gli fa male, apre la porta ed esce da solo, verso il caldo scaffale.

Poi, certo, l’impatto con i sapori è stato del tutto piacevole, una riscoperta, soprattutto la pasta all’ammatriciana col guanciale della Sara (alla faccia del venerdì santo), qualche tagliere di formaggi e salumi, tutto il giro di pasquapasquettaecchipiùnehapiùnemetta, e un bel negroni all’AB, con un sacco di gente ritrovata, qualcuno perso per strada, un sacco di storie infinite da raccontare con ausilio di foto e molti aggiornamenti sul governo ladro, benché non piovesse.

Mi sono anche visto un concerto di quello che rimane di Bob Dylan, che, essendo tornato nell’ultimo album alle sonorità blues di Blonde on Blonde, ha rispolverato note molto evocative, benché la sensazione sgradevole che lo accompagna rimane sempre quella di una pietra che rotola.

Tutto normale insomma, niente che potesse sorprendermi. A posteriori, giustamente. Ho vissuto in Europa 25 anni, ci mancherebbe anche che possa sorprendermi dopo 6 mesi d’Africa, che a dirla tutta, non è poi così diversa. L’Africa no, la gente sì.
L’ho notato in Piazza del Duomo, a Milano. Lato Est, davanti alle Edizioni Paoline. C’è sempre qualche senegalese che vende i pessimi libri di Terre di Mezzo, di cui possiedo l’intera biblioteca vista la mia partenza per il Senegal. Non so come, ma hanno sempre un libro appena uscito. Stampano titoli più che le Strade Blu della Mondadori. Non ho notato il fatto che fosse nero, che vendesse libri, che mi abbia urlato: “RRRastammaannn!”, ma il fatto che mi avesse guardato.

Mi ha guardato come ti guardano in Africa. Odio le generalizzazioni, odio chi parla d’Africa in generale, e quindi odio Kapucinski. Se devo però trovare un tratto comune questo può essere uno dei pochi. Pensavo di essere sotto osservazione per il colore della pelle, e questo è senz’altro vero, ma è altrettanto vero che fissare negli occhi una persona è una cosa altrettanto normale. Io vengo da Milano, città spersonalizzata tra le città spersonalizzate. Si vuole paragonare a Londra. Ecco, ho trovato un punto di contatto.

Sono tornato a casa sapendo cosa avrei trovato e non me ne sono stupito. Ho trovato un pezzo d’Africa in Italia ed è stato inevitabile fare paragoni. Volevo astenermi. Non ce l’ho fatta, ma non aggiungerò altro, come del resto non aggiungono altro qui.

Basta uno sguardo.