venerdì 23 gennaio 2009

Ho fatto un safari

Ho fatto un safari. Un safari lungo due giorni. Sono stato al parco dell’Akagera, ho visto la foresta di Nyungue. Ma ci sono stato per lavoro. E intanto ho tirato un filo. Per tutto il Rwanda. Dal parco al confine tra Uganda e Tanzania fino alla foresta al confine col Congo. Ho cablato il Rwanda. O meglio ho cablato Minirwanda. Un parco di divertimenti che si trova poco dopo l’uscita di Muhura sulla statale Muko-Rukomo A115 dopo l’autogrill di Bugarura.

Minirwanda non è conosciuto come Minitalia. Ma è altrettanto valido. Comincia dalla scuola dove la sera dopo le 18 gli alunni fanno animazione per i piccini con canti e balli per circa mezz’ora. Poi si può cominciare ad ammirare il paesaggio, tipico Rwandese. Ma fino a poco fa pensavo fosse finita lì. E invece entrando nel sotto tetto per tirare il cavo di rete ho scoperto una fauna e una flora che fa invidia allo Tzavo Park narrato nella “Mia Africa”. Per cominciare la temperatura di un sottotetto in Africa, anche se sei a 2000 metri raggiunge circa i 78 gradi. E poi si apre un mondo magico di gazzelle, leoni, zebre che corrono sulle vaste praterie dei plafoni, scimmie che si arrampicano su fili elettrici, tarantole giganti che tessono le loro tele sui pali di sostegno, e boa e pitoni che scorrono sinuosi tra gli altri animali. Per arrivarci basta seguire il cartello per l’aula informatica, prendere la comoda scala che porta alla “riproduzione del parco dell’Akagera”, e fare molta attenzione. Certo l’accesso è un po’ difficile, ci sono molti ostacoli, e soprattutto il fondo di compensato non regge il peso di un uomo, ormai provato dalle mandrie di bufali che corrono lì ormai da anni, e certo, il tetto non è molto alto, pertanto per una visita completa bisogna cercare di muoversi come Catherine Zeta Jones tra i laser della stanza del diamante, o come Harrison Ford nell’Ultima crociata, ma io mi ricordavo bene che Jahvè si scrive con la “J”, avendo già visto il film, e vivendo in parrocchia, ma la fatica vi ripagherà sicuramente.

Inoltre cambiando stanza e risalendo nuovamente il passaggio si fa ancora più angusto, ma, se sarete fortunati, nelle giornate di pioggia potrete ammirare una vera riproduzione, al chiuso di un monsone equatoriale. Dopo essere sopra la 4°C detta anche il rettilario, si esce di nuovo all’aria aperta. Lì il cavo passa sospeso sopra la piccola bottega di barbiere –rappresenzazione dei vecchi mestieri del Rwanda- e la cisterna dell’acqua piovana, dove ci si può fermare per un bagno riposante. Continuando a seguire il filo si arriva nel locale dove sono situati i gruppi elettrogeni, una piccola contaminazione italiana, la riproduzione del porto di Marghera. Questa è in funzione dalle18 alle 21, ma lavorare lì la sera richiama incredibilmente nostalgia di casa.

Finalmente uscendo dal porto e attraversando il prato, rappresentazione non tipicamente ruandese, poiché pianeggiante, si arriva alla grande attrazione. La foresta, riprodotta da una grande Bougainville spinosa mostra tutte le difficoltà di chi vuole attraversare la vera foresta. Un intrico di rami foglie e strutture puntute velenose che fanno sì che per questa attrazione i bambini sotto i 14 anni debbano essere accompagnati. La scelta di far passare il cavo in quella zona ha creato molti dubbi, vista la possibilità che scimmie e pitoni possano utilizzarla come sostegno e quindi minarne la stabilità, ma questo lo verificheremo in seguito. Infine, verso l’uscita si raggiunge l’internet cafè del parco, dove si può riposare, prendere un caffè, e passando dalla lavanderia si può contrattare il prezzo di una maglietta ricordo, anche se chi ha fatto tutto il tour non potrà certo dimenticarsi tutto questo…

mercoledì 7 gennaio 2009

Apologia sul Congo


L’africa è probabilmente uno dei territori più discussi e meno conosciuti. L’africa è un po’ come Parigi. Non per la gente che la popola (in tal caso sarebbe senz’altro Marsiglia), ma piuttosto per il tentativo di ricostruire qualcosa che aveva un fascino e che ora è immancabilmente mutato. Non necessariamente perduto. Un fascino che viene direttamente dai primi del novecento, dai primi scrittori moderni che si sono persi tanto a Pigalle, quanto a Katmandu. Da una parte cercavano paradisi artificiali, e dall’altra trovavano quelli naturali, e per quanto si cerchi di rimanere fuori da questi concetti si trova sempre dietro un angolo di Montmarte un italiano vestito come un gondoliere col basco sulla trequarti che ha anche preso una parlata alla Patty Pravo -versione tempi moderni- che ormai è tRRooooppo che sta a PaRRiji, o sulle spiagge di Malindi una 45enne coi treccioloni piena di braccialetti e vestita con dei panni che abbraccia orgogliosa un masai. Tutto questo nel tentativo di ricalcare un immagine che sta ormai solo nei libri di Wilbur Smith e nelle gesta mitiche di Allan Quaterman. Le miniere di Re Salomone rimangono comunque un po’ nel cuore di tutti e in fondo ognuno le cerca a modo suo.

Poi quando si prende famigliarità con un posto, si conosce il territorio, si parla con le persone, poco a poco questo diventa sempre più familiare meno selvaggio, e troppo spesso anche meno affascinante. Il fascino va a braccetto con lo sconosciuto e lo sconosciuto va a braccetto con una giovane donna sola. Per cui di colpo si perdono le tracce di un antico splendore e di tutte le giovani donne sole. Ci sono due soluzioni: la prima è continuare a far finta di niente, continuare a pensare che nulla sia cambiato, non accorgersi che la ragazza si chiama Bugambo ed è un omone di due metri e ritornare all’aeroporto di Malpensa con la collana di fiori al collo e pensare di saper suonare il tamburo. La seconda è lasciar stare le donne e osservare un po’ più a fondo. Quello che ne viene fuori è qualcosa di strano e complesso. Qualcosa che forse verrà fuori pian piano a chi avrà la pazienza di leggere questo blog. Non è un immagine chiara e precisa. È sfocata e ha dei contorni non molto chiari ma molto piacevoli. Tipo quelle foto da concorso che tutti, giuria a parte, pensano sia una cagata pazzesca. Questo suppone che mi io mi vada ad annoverare tra le persone che hanno scelto la seconda opzione e che sono stato ampiamente alla larga da Bugambo.

La terza via è il Congo. Anch’esso non è immediato. Non è tutto lì come ci si aspetta, ma guardando bene il Congo è l’Africa nera. L’Africa che bolle l’esploratore in pentola. L’Africa con l’osso nel naso. L’Africa con i tamburi il voodoo, il reagge e un sacco di confusione geografica. Un Africa che probabilmente non è mai esistita, ma che si capisce perfettamente da dove sia stata partorita. Da un territorio così vasto e misterioso che, benché lo abbia conosciuto solo per una settimana, ed in una settimana per giunta, stimola tutte quelle immagini di cui sopra. Ma queste non credo siano legate alla scarsa conoscenza benché evidente. Credo siano insite nella sua natura, nella gente, nella vastità, nei conflitti, nelle linee di confine, nelle asserzioni incomprensibili, nella lingua, nella visone delle persone, nell’ineluttabilità degli eventi e nella caparbietà e nell’ostinazione. Caratteristiche tipicamente africane che si esasperano in quel grande pese che sta là nel mezzo.

È per questo che malgrado il fango, le strade, le multe, la corruzione e mille altre cose terribili che ancora non ho sperimentato, proprio non ce la faccio ad arrabbiarmi. Solo ricordamene e sorridere.

lunedì 5 gennaio 2009

La foto dell'anno

Non che non lo sapessi. Non che mi pensassi superiori alle dinamiche che affliggono bene o male tutti gli stranieri, neri o bianchi, cooperanti o cooperati, scaltri o tonti, rodati o novizi, fotografi o ritrattisti, figlidipà e figlidipù. Il problema a Goma, quello a Kinshasa, quello dell’intero Congo da Lubumbashi a Bondo, passando per il Sud Kivu trova il suo perno sull’enormità del territorio, che favorisce dinamiche di controllo fallimentari delle istituzioni portando soldi solo fino ad un certo livello. Chi c’è sotto fa la fame. E quando chi fa la fame ha un fucile, una divisa, o anche solo un tesserino, spara la sua fototessera in faccia a chi -la faccia- ce l’ha solo su un passaporto; e neanche con se.

Forse le intenzioni all’inizio erano buone, anche perché dopo venti minuti di discussione il tutto si risolve con una stretta di mano; ma c’è sempre il burocrate che nasconde dietro alla maschera di gesso una faccia di bronzo e ti accompagna ad espletare le “formalità”.

In ordine: nella piazza centrale di Bukavu c’è un memoriale di due vescovi: uno assassinato in piazza, l’altro morto a Roma dopo un lungo esilio e quindi anch’esso assassinato per la maggior parte dei congolesi. Cadendo un po’ tutto a pezzi mi sembra doveroso fotografare l’unico pseudo monumento presente in città. Se non che un poliziotto, con la buffissima divisa congolese, casco di metallo tipo stumtruppen, blu e giallo, a cui si fatica dare un’autorevolezza, comincia a chiedere l’autorizzazione per le foto, se sono un giornalista o figlio di Kabila. Perché in caso contrario sono CONTRO LA LEGGE. Tattattattàààà…. aggiungo io. Eccone un altro che vuole 5 dollari. Sfoderando una dialettica proverbiale riesco a convincerli (uso il plurale, perché nel frattempo i vigili urbani sono 3 i poliziotti 5 e i militari 8, in una progressione di Fibonacci) , che non sapevo fosse proibito, non avevo intenzione di far male a nessuno, e che in ogni caso cancello le foto. Pari e patta. La folla che si è raggruppata attorno a noi acclama come dopo un rigore concesso. Scambio di nomi, provenienza e il tipico calore congolese. Ma il burocrate è in agguato. Il cartellino appeso e il sorriso stampato. Hai voglia di dirgli che è già tutto risolto. Dobbiamo andare a lavorare, e anche lui.

L’ufficio è di gran lunga peggio del bagno dell’autogrill di Bologna dopo Fiorentina Atalanta (1-1 molto discusso), il verbale stilato su foglio bianco A4 con carta carbone per duplice copia, e una formalità, una gentilezza e un sorriso alla vaselina che fanno supporre dove tutto andrà a finire. E infatti per evitare il carcere e lavori forzati per 12 anni (così minacciato dalle autorità dei servizi segreti congolesi -che si aggiungono in numero di 4 ai precedenti funzionari-) il nostro mediatore ci rassicura e ci fa uscire in tutta fretta dicendo che è andato tutto bene. Ma ne parliamo fuori. Così cosa ci hanno messo nel culo non lo ancora capito, ma dal portafoglio hanno sfilato 240$, ma siamo stati fortunati… erano 245$. Ci ha fatto lo sconto. Ovviamente per questo post la foto non c’è.

domenica 4 gennaio 2009

Sweet Home Bukavu


Missione oltre confine. Bukavu è una città piuttosto inflazionata nelle conversazioni in Rwanda. Tra novizi, preti, suore, passanti, professori universitari, commercianti, tassisti, vetture, biciclette, monocicli, giocolieri, artigiani e artigianato, ecchipiuneà piunemetta, la comunità congolese del Sud Kivu presente in Rwanda sembra eguagli quasi la popolazione autoctona. E notoriamente questo crea un’aurea di rilucente splendore negli occhi di chi, lontano da casa, parla del nido natio. Bukavu è enorme, magnifica, bellissima; epicentro di cultura, tradizione, divertimento e perdizione. Bukavu è centro nevralgico del nuovo mondo, da qui che parte ogni nuova via, dalle province del grande impero, se si sente una voce che si sta alzano viene dall’ombelico del mondo, e loro, sicuro, stanno già ballando.

Questo qualche secondo prima che arrivassi io. Poi è arrivato il tornado, la pioggia di fuoco, l’invasione delle cavallatte, l’invasione dei turchi, tre terremoti e due meteoriti e una guerra che dura da 12 anni. Questa però è vera. Bukavu è in Congo, appena dopo Cyangugu. Le due città segnano il confine tra Rwanda e Repubblica Democratica del Congo (RDC), segnando anche il confine tra l’asfalto e le sabbie mobili. Per chi arriva dal Rwanda in un giorno di pioggia la distinzione è netta. Il colore è marrone, così dominante e forte che il ricordo lo si associa anche al cielo. Il fango copre qualunque buco, le targhe delle macchine, ed in generale qualunque regola stradale vigente. Un valzer di autocarri delle Nazioni Uniti danza con compostezza, costantemente, manifestando apertamente la propria appartenenza alle varie officine ONU con dei sobri murales dipinti sulle fiancate. Ma il contrasto tra il Rwanda, europeo al confronto, e il Congo, non suggerisce desolazione, bensì quel meraviglioso bordello che contraddistingue le grandi città africane. Un casino che non si può percepire da lontano, dall’alto, da una collinetta che ti permette di osservare la maestosità del lago Kivu, della foresta di Nyungwe, ancora in Rwanda, e la Botte, lo stivale, il quartiere presidenziale di Bukavu, che la fa assomigliare fortemente al promontorio di Bellagio, visto scendendo dalla Madonna del Ghisallo. Ma questo clima di pace che trasmette dall’alto fa violentemente a capate con l’atmosfera di anarchia che regna laggiù in basso, e per uno strano meccanismo contrario a quello di sopravvivenza, l’istinto è quello di scendere, di mescolarsi al disordine, di aggiungere il proprio contributo all’entropia. Di far scomparire Bellagio e far apparire Bukavu.