sabato 30 maggio 2009

Questione di Sguardi


Sono quasi due mesi che non aggiungo nulla a quello già scritto in precedenza. Un po’ perché ho lavorato, un po’ perché non avevo voglia e un po’ perché ero in Italia.
Tornato nel bel paese mi sono dato al giapponesismo, quell’attitudine a girare come una trottola scattando foto a monumenti disparati, portando a collocare la Tour Eiffel a Venezia, il Cenacolo a Londra, il Big Bang a Barcellona e la fontana di Trevi a Roma (ma è solo un caso). Perciò, caffè e briosche alla fontana, foto di rito, volo a Parigi per vedere le piramidi, con mia grande delusione, e poi, a cercare il Colosseo a Firenze, senza peraltro trovarlo. Dopo 6 mesi d’Africa, di Rwanda, di Muhura, mi aspettavo uno shock da occidente, un passaggio in un nuovo mondo, un impatto da Australopiteco scongelato modello Similaun. Ed in effetti sono stato colpito, con un po’ di stupore, dallo sviluppo verticale delle città, dalla velocità folle delle auto, dai frigoriferi ricolmi di cose, che, anche se ora sto a Byumba, con corrente e frigorifero sempre acceso, dei tre scaffali se ne vede pieno solo mezzo: tre pezzi di grana, un po’ di coppa e due salami. La cucina ruandese non sa cosa farsene del frigorifero. Anche il burro, quello keniota, il Blue Band, oltre a non essere burro (e nemmeno un composto organico), è studiato per non essere conservato in frigo. Il freddo gli fa male, apre la porta ed esce da solo, verso il caldo scaffale.

Poi, certo, l’impatto con i sapori è stato del tutto piacevole, una riscoperta, soprattutto la pasta all’ammatriciana col guanciale della Sara (alla faccia del venerdì santo), qualche tagliere di formaggi e salumi, tutto il giro di pasquapasquettaecchipiùnehapiùnemetta, e un bel negroni all’AB, con un sacco di gente ritrovata, qualcuno perso per strada, un sacco di storie infinite da raccontare con ausilio di foto e molti aggiornamenti sul governo ladro, benché non piovesse.

Mi sono anche visto un concerto di quello che rimane di Bob Dylan, che, essendo tornato nell’ultimo album alle sonorità blues di Blonde on Blonde, ha rispolverato note molto evocative, benché la sensazione sgradevole che lo accompagna rimane sempre quella di una pietra che rotola.

Tutto normale insomma, niente che potesse sorprendermi. A posteriori, giustamente. Ho vissuto in Europa 25 anni, ci mancherebbe anche che possa sorprendermi dopo 6 mesi d’Africa, che a dirla tutta, non è poi così diversa. L’Africa no, la gente sì.
L’ho notato in Piazza del Duomo, a Milano. Lato Est, davanti alle Edizioni Paoline. C’è sempre qualche senegalese che vende i pessimi libri di Terre di Mezzo, di cui possiedo l’intera biblioteca vista la mia partenza per il Senegal. Non so come, ma hanno sempre un libro appena uscito. Stampano titoli più che le Strade Blu della Mondadori. Non ho notato il fatto che fosse nero, che vendesse libri, che mi abbia urlato: “RRRastammaannn!”, ma il fatto che mi avesse guardato.

Mi ha guardato come ti guardano in Africa. Odio le generalizzazioni, odio chi parla d’Africa in generale, e quindi odio Kapucinski. Se devo però trovare un tratto comune questo può essere uno dei pochi. Pensavo di essere sotto osservazione per il colore della pelle, e questo è senz’altro vero, ma è altrettanto vero che fissare negli occhi una persona è una cosa altrettanto normale. Io vengo da Milano, città spersonalizzata tra le città spersonalizzate. Si vuole paragonare a Londra. Ecco, ho trovato un punto di contatto.

Sono tornato a casa sapendo cosa avrei trovato e non me ne sono stupito. Ho trovato un pezzo d’Africa in Italia ed è stato inevitabile fare paragoni. Volevo astenermi. Non ce l’ho fatta, ma non aggiungerò altro, come del resto non aggiungono altro qui.

Basta uno sguardo.

sabato 21 marzo 2009

Con Indiana


Da qualche tempo ho cominciato a seguire i progetti idrici di MLFM. In realtà seguo Giuseppe come un pesce che punta l’esca, anche se lui continua a pescare in acque basse, e io a navigare in acque profonde, essendo piuttosto ignorante in materia, anche se tutto si semplifica schematizzando la rete idrica come un circuito elettronico, trovando difficoltà a fare la retroazione dell’acquedotto, il che inficia completamente gli ultimi tre anni di università (scusate questa era per gli amici ingegneri). In ogni caso siamo in missione a Kibungo per capire dove piazzare la pompa. Arriviamo con un sole splendente e vediamo lo scavo del filtro dall’alto, soffocato ai bordi da un bananeto, il che colloca automaticamente la pompa all’interno dello stesso. Cominciamo a scendere per un paesaggio ormai noto. Vicino all’Umutara, come a Muhura, la temperatura è più mite, colline di banane, valli un po’ paludose in basso, e mai una strada che arriva dove vuoi tu. La macchina è rimasta a monte, fatto che diventerà rilevante al momento di risalire… Arriviamo allo scavo del filtro, considerazioni tecniche e poi dentro il bananeto con Petero che abbraccia un machete per farsi largo tra la natura violenta. Le nuvole compaiono dal nulla, anche perché in Rwanda l’orizzonte è a circa 1 Km, e quello che vedi è sempre una collina più alta. Andiamo avanti, Petero sega una banana e Edo piazza la livella laser sul tronco della pianta. Una misura e poi il diluvio. Giuseppe sfodera esperto un poncho stile scout, Edo ancora più esperto si ripara sotto un foglione di banano, io uso entrambe le tecniche, ma gli unici a non bagnarsi sono i rwandesi che rimangono immobili sotto le piante. L’immagine è nota e la pesco, non dall’esperienza, ma dal cinema, dai libri, dalle foto e da superquark e l’intervista a Mainardi. L’africa tropicale nel pieno del suo stereotipo. Un’acqua torrenziale scende dal cielo, evento lievemente mitigato da una vegetazione fittissima. Il colore dominante è assolutamente il verde che spazia ovunque, di lato, sotto i piedi e anche di fronte dove salgono colline coltivate fino al cielo, diversamente nero. È impossibile fare qualunque tipo di attività. Unica eccezione Giuseppe, che si ritira nel suo poncho come una tartaruga impaurita e scatta una foto col cellulare. Petero ride e mi profonde consigli su come non coprirmi di fango, tecniche che per i bazungo (plurale di muzungo) non funzionano. A tratti riesce a piovere ancora di più, accentando quell’immagine nota di uno scenario fino a poco tempo fa sconosciuto fatto colori, visi, ma soprattutto, sensazioni. Ripesco idee che vengono da Kipling, Cussler, Crichton, l’Africa coloniale, Lara Croft, L’india, Indiana Jones e l’eterno Allan Quatermain. E proprio come Indiana Jones, con cappello in stile, appena comincia a spiovere, Giuseppe sfodera il metro come fosse l’impareggiabile frusta, accende la livella e, tutti ai loro posti, ricominciamo da dove avevamo lasciato. Altre considerazioni tecniche e ritorniamo allo scavo del filtro. Visto così dal basso, piatto e mezzo allagato sul fondo, con le pareti verticali scavate nella terra rossa che salgono per qualche metro, e la vegetazione che guarda tutto dall’alto, sembra veramente un incrocio tra le miniere di re Salomone e il tempio maledetto. Aspettiamo solo lo stregone che cerca di strapparci il cuore, metro alla mano e sguardo appannato.

martedì 3 marzo 2009

Familiarità


Negli ultimi tempi ho trovato un po’ tempo per vedere Muhura. I ritmi violenti necessari per concludere le sale informatiche sono cessati ed il lavoro di gestione conseguente lascia un po’ più di tempo libero. Tempo libero per le peregrinazioni, per scoprire almeno una delle mille colline del Rwanda, visto che fino ad ora le avevo solo fotografate, e da lontano per giunta. Muhura è una collina, anche se vista da lontano, dalla diga di Enrico, assume più l’immagine di una striscia con la parrocchia a fare da capofila, come la cresta di un grande drago verde (no, non vedo i draghi, era solo un paragone –per inciso il drago verde è la collina-). Quindi l’esplorazione, che era rimasta confinata alla sola strada carrabile che attraversa Muhura, è cominciata proprio da qui.
Scendendo per un sentiero qualsiasi l’immagine assume delle tinte completamente diverse. La densità abitativa cala improvvisamente e si aprono i campi e le valli, prima nascosti dalla fila di case e banane sui bordi della strada. I sentieri percorrono scene rurali consuete come un piccolo pascolo di mucche, vegetazioni esotiche, e scene così tipicamente rurali e africane, che uno sceneggiatore di Gardaland, non avrebbe difficoltà a riprodurre per la nuova avventura 2009: “The Ecstasy of Gold”, vai anche tu alla ricerca del tesoro di Re Salomone attraverso le rapide più lunghe d’Europa, vivendo una vera esperienza africana. Sentieri che cambiano ogni trecento metri, perché qui le parcelle che ogni contadino coltiva non sono più grandi di due ettari, e su ognuna ci sono almeno tre colture. Sentieri che mostrano valli degne di un quadro di Mordillo, tanto sono arcuate le colline che le circondano, e tanti sono i colori degli innumerevoli campi che si possono osservare in un sol colpo d’occhio. Sentieri che possono non aver luogo e tempo. Solo la presenza costante di quelle case, può suggerire l’idea del continente nero. La testa non pensa, non elabora pensieri strutturati. L’unica cosa in grado di fare è guardare e non pensare. La differenza sta nel fatto che di solito mi dimentico anche di guardare… Poi d’improvviso, entra nella testa un immagine. Arriva a schiaffeggiarti violentemente. È il pensiero che vola all’aula informatica e all’internet cafè che sta per aprire. La sola idea dell’esistenza di un posto simile sembra assurda se paragonata all’immagine che si sta ancora osservando, e così adeguata se si pensa al luogo dove effettivamente si trova, benchè siano a distanza di 200m l’uno dall’altro. Perché tornando sulla strada ci si rende conto di come quella effettivamente sia il fulcro della vita sociale ed economica di Muhura.
La prima immagine (parlo proprio della prima, quella descritta nel post “strada per muhura” quella del “tutto nuovo tutto bello”) che si riceve da un posto così lontano dalle ottiche europee è viziata dalla diversità. La diversità è tutta uguale. Sempre. I cinesi sono tutti uguali, gli africani sono tutti neri, e le catapecchie sono catapecchie. Punto. La strada non è asfaltata, i colori sono diversi, la gente anche. È proprio osservando tutto questo che si lascia da parte una valutazione intrinseca delle cose a vantaggio di una grande confusione di colori, odori e immagini. Ma poco a poco le case, le facce, i posti e gli atteggiamenti diventano familiari. Si riconosce e si vede sempre di più, le cose assumono sfaccettature diverse e si comincia a distinguere sempre più a fondo, non vedendo più la diversità, ma concentrandosi sulle somiglianze verso ciò che si conosce. E in quel momento vedi lo struscio delle 5 di pomeriggio, vedi che la gente è vestita meglio e che passeggiano sulla via principale - che assume i toni di un corso - la domenica i muzungo sono i peggio vestiti, e dopo la messa si chiacchiera sul sagrato. Quando non sai che fare vai al mercato, tanto qualcuno lo incontri, e dopo averlo salutato passeggi verso casa con qualche pettegolezzo in più.
La diversità non c’è più. È tutto normale, come dev’essere.

giovedì 12 febbraio 2009

Una grande festa



È un po’ difficile cominciare a tirare le somme di un lavoro di 3 mesi e mezzo. È difficile quando non vuoi solo parlare dei risultati, ma vuoi costruire un bilancio soggettivo di quello che hai fatto. Hai ben chiaro tutto il percorso, e mostrare due fotografie, per quanto dettagliate siano, di ciò che ancora non c’era, e di ciò che è stato fatto, risulta soddisfacente solo da un punto di vista tecnico. Questa dinamica risulta chiara nel momento dell’utilizzo del’opera, e mai prima. Prima c’è la soddisfazione di essere riusciti a fare ciò che ci si era prefissato di ottenere. Soddisfazione del tutto personale. Ma le dinamiche cambiano fortemente quando altre persone entrano a far parte delle conseguenze (spero benefici in questo caso) di ciò che hai fatto.
Quando Padre Mario decide di celebrare l’inaugurazione con una manifestazione ufficiale e pomposa, alla presenza di tutta la scuola, quando indice una messa per fare un’omelia incomprensibile in kinyarwanda, dove l’unica parola chiara era “computer”, quando arrivi a scuola e hai la poltrona d’onore davanti a 700 studenti, e in fianco: il capo della polizia, il capo del settore, il sindaco, e una serie di autorità non meglio identificate, quando Stefano fa un discorso di mezz’ora sull’importanza della comunicazione, quando ti ballano davanti, quando tagliano il nastro, entrano nelle aule, e le autorità di cui sopra si rendono conto di quello che avete fatto manifestandolo con un gran sorriso, quando la grande festa termina con una cena, e tutti i professori sono contenti davanti alle loro birre, e quando , probabilmente a causa delle suddette birre, i professori vengono a ringraziarti per “il grande lavoro che hai fatto, perché quando studiavo io qua non c’era niente”, allora, e solo allora, ti rendi conto di cosa significa tutto questo per gli altri, e la soddisfazione personale lascia spazio alla felicità collettiva.
Ma quando, il giorno dopo, Principe, con i suoi soliti modi ottocenteschi, fa accomodare come si addice ad un valletto di corte, il signore che entra nell’internet cafè di Muhura, e dopo avergli spiegato le procedure mi comunica: “Marco -lunga pausa- abbiamo il nostro primo cliente”, non puoi fare a meno di guardalo con orgoglio, cancellare tutto il lavoro fatto, e goderti il risultato con un grande grazie a lui, Anastase e Stefano.
Ora è già passato qualche giorno dall’inaugurazione, l’internet cafè funziona, l’aula di informatica viene utilizzata regolarmente, spesso vado giù a controllare, ma non c’è molto da fare. Sono bravi. E questa forse è stata la più grande fortuna. Anastase e Principe (che si legge prinsìp, e non principe, benché i suoi modi potrebbero pienamente giustificare questo nome), sono due professori, il primo è qui da sempre, l’altro è appena arrivato, ma benché loro siano sempre più puliti di me, ci siamo sporcati le mani insieme. Stefano ha sempre aiutato, è sempre stato disponibile, ma essendo sempre a Byumba, non si è beccato la foto celebrativa. Così impara. Il secondo giorno di Rwanda mi ha detto: “nessuno può sapere a priori se ti può piacere Muhura o no”. Lui c’è stato, gli è piaciuta, e benché lavori ad un progetto molto più grande ed impegnativo, forse sa anche, che non restando qui, si è perso molto di più di una semplice apparizione in una foto.

giovedì 5 febbraio 2009

Mi sono clonato



Mi sono clonato. E mi sono fatto paura. Un po’ per la mia faccia, un po’ perché funziona. E sembra strano perché è venuto fuori dal nulla. Cioè: è venuto fuori dalla polvere, dai fili, dagli scatoloni, dalle magliette sudate e da qualche camion. Per fortuna quello che è venuto fuori dalle magliette sudate è stato poi eliminato col napalm… C’èra da fare un’aula informatica. E ora c’è. Come per magia. Arrivi un giorno, guardi un po’ le cose, fai due chiacchiere, vai controllare, vai a fare, ti incazzi perché non hanno fatto, e allora fai di nuovo, e ancora, e ancora, e dopo neanche tre mesi ti trovi con le cose che funzionano. Già una parvenza di dignità era avvenuta con l’installazione dei tavoli, dei PC e una bella scopata alle ragnatele. Però c’era una certa esigenza di funzionamento del progetto. Cioè bisognava lavorare ancora. Lavorare in regime di quasivanno.

Lavorare quando le cose quasivanno è certamente una spinta a finire, ma dall’altra incredibilmente frustrante quando ti rimangono 15 piccole cose che inficiano tutto il lavoro, ma nella tua testa sono piccole, e quindi la motivazione è alle stalle, dove si rincontra con le magliette di prima. Quindi rinnovato dallo schiaffo delle tue ascelle, maturato da tue giornate ininterrotte nel sottotetto (dove mi hanno però gentilmente portato da mangiare, vedi Ho fatto un safari, NDR), stringi i denti e passi dal quasivanno, all’hopraticamentefinito, che al contrario eccita gli animi e le menti verso l’uscita dal tunnel, verso la luce.

La luce per la verità l’avevamo già vista da tempo; qualche mese prima quando lavoravamo sull’impianto elettrico ed avevamo stabilito la necessità di quattro neon. Quando ancora non pensavamo che saremmo riusciti, a gestire i PC, a gestire le aule, a gestire noi stessi nell’arduo compito di gestire le aule. Quando ancora la parola funziona era sempre preceduta e seguita –vedi la grammatica francese- da una inevitabile negazione, e non sapevo ancora come si dicesse: “bene”, in kinyarwanda, perché tanto non c’era bisogno di dirlo. Quando ancora la possibilità di proiettare sugli schermi di tutti i computer la stessa immagine, era ancora un sogno. Quando non avevo ancora capito che se si va a festeggiare la fine dei lavori alle 4 di venerdì, Anastase ha troppo tempo per scolarsi troppe birre (benché non divenga più loquace) , e lo devi fermare, altrimenti finisci i soldi, mentre Principe sia in grado di ubriacarsi con due fanta e una coca. Quando ancora maledicevi quelle scatole nere, e ora invece vedi la soddisfazione sulla faccia di tutti, tanto che per modestia e per rendere un mondo migliore alla fine ci siamo clonati tutti e tre.

venerdì 23 gennaio 2009

Ho fatto un safari

Ho fatto un safari. Un safari lungo due giorni. Sono stato al parco dell’Akagera, ho visto la foresta di Nyungue. Ma ci sono stato per lavoro. E intanto ho tirato un filo. Per tutto il Rwanda. Dal parco al confine tra Uganda e Tanzania fino alla foresta al confine col Congo. Ho cablato il Rwanda. O meglio ho cablato Minirwanda. Un parco di divertimenti che si trova poco dopo l’uscita di Muhura sulla statale Muko-Rukomo A115 dopo l’autogrill di Bugarura.

Minirwanda non è conosciuto come Minitalia. Ma è altrettanto valido. Comincia dalla scuola dove la sera dopo le 18 gli alunni fanno animazione per i piccini con canti e balli per circa mezz’ora. Poi si può cominciare ad ammirare il paesaggio, tipico Rwandese. Ma fino a poco fa pensavo fosse finita lì. E invece entrando nel sotto tetto per tirare il cavo di rete ho scoperto una fauna e una flora che fa invidia allo Tzavo Park narrato nella “Mia Africa”. Per cominciare la temperatura di un sottotetto in Africa, anche se sei a 2000 metri raggiunge circa i 78 gradi. E poi si apre un mondo magico di gazzelle, leoni, zebre che corrono sulle vaste praterie dei plafoni, scimmie che si arrampicano su fili elettrici, tarantole giganti che tessono le loro tele sui pali di sostegno, e boa e pitoni che scorrono sinuosi tra gli altri animali. Per arrivarci basta seguire il cartello per l’aula informatica, prendere la comoda scala che porta alla “riproduzione del parco dell’Akagera”, e fare molta attenzione. Certo l’accesso è un po’ difficile, ci sono molti ostacoli, e soprattutto il fondo di compensato non regge il peso di un uomo, ormai provato dalle mandrie di bufali che corrono lì ormai da anni, e certo, il tetto non è molto alto, pertanto per una visita completa bisogna cercare di muoversi come Catherine Zeta Jones tra i laser della stanza del diamante, o come Harrison Ford nell’Ultima crociata, ma io mi ricordavo bene che Jahvè si scrive con la “J”, avendo già visto il film, e vivendo in parrocchia, ma la fatica vi ripagherà sicuramente.

Inoltre cambiando stanza e risalendo nuovamente il passaggio si fa ancora più angusto, ma, se sarete fortunati, nelle giornate di pioggia potrete ammirare una vera riproduzione, al chiuso di un monsone equatoriale. Dopo essere sopra la 4°C detta anche il rettilario, si esce di nuovo all’aria aperta. Lì il cavo passa sospeso sopra la piccola bottega di barbiere –rappresenzazione dei vecchi mestieri del Rwanda- e la cisterna dell’acqua piovana, dove ci si può fermare per un bagno riposante. Continuando a seguire il filo si arriva nel locale dove sono situati i gruppi elettrogeni, una piccola contaminazione italiana, la riproduzione del porto di Marghera. Questa è in funzione dalle18 alle 21, ma lavorare lì la sera richiama incredibilmente nostalgia di casa.

Finalmente uscendo dal porto e attraversando il prato, rappresentazione non tipicamente ruandese, poiché pianeggiante, si arriva alla grande attrazione. La foresta, riprodotta da una grande Bougainville spinosa mostra tutte le difficoltà di chi vuole attraversare la vera foresta. Un intrico di rami foglie e strutture puntute velenose che fanno sì che per questa attrazione i bambini sotto i 14 anni debbano essere accompagnati. La scelta di far passare il cavo in quella zona ha creato molti dubbi, vista la possibilità che scimmie e pitoni possano utilizzarla come sostegno e quindi minarne la stabilità, ma questo lo verificheremo in seguito. Infine, verso l’uscita si raggiunge l’internet cafè del parco, dove si può riposare, prendere un caffè, e passando dalla lavanderia si può contrattare il prezzo di una maglietta ricordo, anche se chi ha fatto tutto il tour non potrà certo dimenticarsi tutto questo…

mercoledì 7 gennaio 2009

Apologia sul Congo


L’africa è probabilmente uno dei territori più discussi e meno conosciuti. L’africa è un po’ come Parigi. Non per la gente che la popola (in tal caso sarebbe senz’altro Marsiglia), ma piuttosto per il tentativo di ricostruire qualcosa che aveva un fascino e che ora è immancabilmente mutato. Non necessariamente perduto. Un fascino che viene direttamente dai primi del novecento, dai primi scrittori moderni che si sono persi tanto a Pigalle, quanto a Katmandu. Da una parte cercavano paradisi artificiali, e dall’altra trovavano quelli naturali, e per quanto si cerchi di rimanere fuori da questi concetti si trova sempre dietro un angolo di Montmarte un italiano vestito come un gondoliere col basco sulla trequarti che ha anche preso una parlata alla Patty Pravo -versione tempi moderni- che ormai è tRRooooppo che sta a PaRRiji, o sulle spiagge di Malindi una 45enne coi treccioloni piena di braccialetti e vestita con dei panni che abbraccia orgogliosa un masai. Tutto questo nel tentativo di ricalcare un immagine che sta ormai solo nei libri di Wilbur Smith e nelle gesta mitiche di Allan Quaterman. Le miniere di Re Salomone rimangono comunque un po’ nel cuore di tutti e in fondo ognuno le cerca a modo suo.

Poi quando si prende famigliarità con un posto, si conosce il territorio, si parla con le persone, poco a poco questo diventa sempre più familiare meno selvaggio, e troppo spesso anche meno affascinante. Il fascino va a braccetto con lo sconosciuto e lo sconosciuto va a braccetto con una giovane donna sola. Per cui di colpo si perdono le tracce di un antico splendore e di tutte le giovani donne sole. Ci sono due soluzioni: la prima è continuare a far finta di niente, continuare a pensare che nulla sia cambiato, non accorgersi che la ragazza si chiama Bugambo ed è un omone di due metri e ritornare all’aeroporto di Malpensa con la collana di fiori al collo e pensare di saper suonare il tamburo. La seconda è lasciar stare le donne e osservare un po’ più a fondo. Quello che ne viene fuori è qualcosa di strano e complesso. Qualcosa che forse verrà fuori pian piano a chi avrà la pazienza di leggere questo blog. Non è un immagine chiara e precisa. È sfocata e ha dei contorni non molto chiari ma molto piacevoli. Tipo quelle foto da concorso che tutti, giuria a parte, pensano sia una cagata pazzesca. Questo suppone che mi io mi vada ad annoverare tra le persone che hanno scelto la seconda opzione e che sono stato ampiamente alla larga da Bugambo.

La terza via è il Congo. Anch’esso non è immediato. Non è tutto lì come ci si aspetta, ma guardando bene il Congo è l’Africa nera. L’Africa che bolle l’esploratore in pentola. L’Africa con l’osso nel naso. L’Africa con i tamburi il voodoo, il reagge e un sacco di confusione geografica. Un Africa che probabilmente non è mai esistita, ma che si capisce perfettamente da dove sia stata partorita. Da un territorio così vasto e misterioso che, benché lo abbia conosciuto solo per una settimana, ed in una settimana per giunta, stimola tutte quelle immagini di cui sopra. Ma queste non credo siano legate alla scarsa conoscenza benché evidente. Credo siano insite nella sua natura, nella gente, nella vastità, nei conflitti, nelle linee di confine, nelle asserzioni incomprensibili, nella lingua, nella visone delle persone, nell’ineluttabilità degli eventi e nella caparbietà e nell’ostinazione. Caratteristiche tipicamente africane che si esasperano in quel grande pese che sta là nel mezzo.

È per questo che malgrado il fango, le strade, le multe, la corruzione e mille altre cose terribili che ancora non ho sperimentato, proprio non ce la faccio ad arrabbiarmi. Solo ricordamene e sorridere.